Il primo contatto alieno

Una proposta “vera” di un ricercatore americano mi ha fatto pensare a questo racconto. Sbaglierò, ma la soluzione mi sembra la più giusta e ovvia. Perché, infatti, non provare di nuovo?

Il primo contatto alieno

Erano passati 432 anni dal primo tentativo compiuto dalla razza umana per comunicare con i fratelli dello spazio, una volta chiamati alieni. Si erano provate tutte le lunghezze d’onda e tutte le possibili direzioni del Cosmo. Niente da fare. La tecnologia, le distanze e le leggi della fisica non permettevano di più. Era un vero strazio sapere che in giro per la galassia si erano ormai scoperti migliaia e migliaia di pianeti simili alla Terra, con atmosfere sicuramente vivibili, e non potere agire. Anche la speranza che gli “altri” fossero più bravi di noi era ormai sparita del tutto. Probabilmente erano come noi e come noi i loro tentativi si bloccavano contro le nostre stesse difficoltà.

Dovevamo rassegnarci a sapere di non essere probabilmente soli, ma di essere incapaci di rendere palese la nostra esistenza? O -ancora peggio- sapere, magari, che gli altri sapevano, ma che non potevano fare ugualmente niente? No, no, qualcosa doveva essere tentato! Che senso aveva, altrimenti, possedere una mente pensante se non si poteva utilizzare con gli amici del Cosmo? Chiusi in una prigione senza confini, muti, ciechi e sordi: un incubo insopportabile!

D’altra parte l’uomo non poteva andare nello Spazio. I tempi per giungere sulla prima stella con un pianeta simile al nostro e con chiari segni di vita biologica erano troppo lunghi per sopravvivere al morbo di Hutching. Le radiazioni delle particelle gamma inverse, scoperte da ormai più di cento anni, non potevano essere bloccate dalle strutture delle astronavi. Come i loro cugini neutrini passavano ovunque, portando, però, una morte quasi immediata. Meno male, per la razza umana, che la magnetosfera solare la proteggeva adeguatamente. Ma, al di fuori, non c’era scampo e nemmeno era pensabile costruire una magnetosfera artificiale per l’astronave.

I viaggi dell’uomo rimanevano confinati all’interno del sistema Solare. Né, d’altra parte erano stati fatti grandi passi verso il raggiungimento della velocità della luce. Ci volevano diverse generazioni per raggiungere la prima stella “abitata” o “abitabile”. L’impresa era del tutto impossibile e forse lo era altrettanto per i fratelli dell’Universo. E pensare che la tecnologia era andata avanti a ritmo incredibile, permettendo di simulare artificialmente quasi tutte le capacità del corpo e della mente umana.

“Che stupidi che siamo!” Questo era stato il grido del prof. Ken Stuberton quando aveva avuto l’idea. “Se non riusciamo a viaggiare noi, facciamolo fare alle nostre creature artificiali. Loro sono immuni ai gamma inversi e possono replicarsi continuamente se l’usura lo richiedesse. Dopo il contatto potrebbero tornare indietro o -meglio ancora- inviarci informazioni precise su come sono fatti gli amici, cosa pensano, che desideri hanno, e magari riusciremmo finalmente a capire come muoverci per ottenere un giorno un incontro diretto. Due menti sono meglio di una”.

Chiamarli “robot” era oltremodo riduttivo. E’ vero che erano fatti di metallo e di materiale sintetico, ma conoscevano tutto della razza umana, ne avevano gli stessi pensieri e le stesse aspirazioni. Si sarebbero comportati come un uomo in carne e ossa, cuore e cervello. Oltretutto, non erano sensibili a corruzioni, egoismi, arroganza, imposizioni mediatiche, smania di potere e di ricchezza. Sarebbero stati un esempio puro della ragione e della conoscenza umana, costruitasi attraverso i millenni della sua storia.

Come l’uovo di Colombo, l’idea di Stuberton era facilissima da realizzare. Forse, non era mai stata pensata per una specie di orgoglio latente. L’uomo era l’essere perfetto e doversi fare sostituire da una macchina, sebbene pressoché uguale a lui, era una dura sconfitta da accettare. La voglia di comunicare, però, era ormai superiore alla superbia.

Hope1 era ormai partito dalla Terra da circa 800 anni e gliene rimanevano altri 500 per raggiungere la stella HD 146234. Essa sembrava sempre più la candidata migliore. La scelta era stata perfetta. Le comunicazioni erano state sospese, essendo del tutto inutili. Si sarebbero attivate solo nel momento della riuscita della missione. A quel punto, un’altra lunghissima attesa, ma, alla fine, qualcosa di certo, sicuro, definitivo.

Dopo centinaia di anni, la razza umana non era cambiata di molto e la tecnologia spaziale non aveva fatto passi in avanti, forse proprio perché si affidava ormai solo a Hope1 in viaggio verso i fratelli del Cosmo. Hope1 aveva dovuto replicarsi un paio di volte, ma senza perdere un briciolo della conoscenza che custodiva nella sua mente sintetica.

Era stato creato a sembianza di un uomo. In fondo, le idee maschiliste non erano mai sparite del tutto sulla lontanissima Terra. Per lui non esisteva noia e, teoricamente, nemmeno emozione. Tuttavia, uno strano fremito lo colse quando comparve un’altra astronave lucente e luminosa, molto simile alla sua. L’incontro fu bellissimo nella sua semplicità. L’unico occupante della nave “amica” era un essere sintetico come lui, dalle chiare forme femminili. Il suo nome era Spes1.

Passarono mesi e mesi a parlare e a descrivere tutto ciò che essi rappresentavano. Ognuno riversò all’amico/a tutta la conoscenza del mondo da cui proveniva. Che dire? La somiglianza sia fisica che mentale nei popoli diversi del Cosmo era praticamente perfetta. Le stesse aspirazioni, le stesse paure e speranze, gli stessi difetti e miserie.

Nel frattempo, qualcosa di inaspettato era nato tra Hope1 e Spes1. Non era solo sete di conoscenza reciproca. Era qualcosa di più e di diverso. D’altra parte entrambi conoscevano bene quel tipo di sentimento, essendo parte fondamentale delle proprie razze. Si guardarono senza parlare per giorni e giorni, riflettendo e cercando di riassumere l’enorme mole di dati -e non solo- che avevano immagazzinato. La decisione fu presa spontaneamente e naturalmente.

Tornarono alle rispettive astronavi e si diressero velocemente sul pianeta che orbitava attorno alla stella a loro più vicina. Era solido, con temperatura e atmosfera diverse dai rispettivi pianeti. Ma che importava? Loro erano solo macchine. Estremamente sofisticate, ma solo macchine. Non temevano le condizioni ambientali. Sopportavano i raggi gamma inversi, figuriamoci il freddo o il caldo, l’ossigeno o il fluoro o lo zolfo. Per loro quell’ambiente era meraviglioso.

Hope1 e Spes1 mandarono i rispettivi messaggi ai loro mondi. Erano perfettamente identici: “Raggi gamma inversi di natura sconosciuta e di violenza inaudita stanno portandomi alla completa inattività. Mi sto spegnendo. Nessun $contatto$ stabilito con amici del Cosmo. Addio”.

Non erano passati molti anni e quel pianeta, non certo tra i più belli della galassia, si stava popolando di piccoli esseri sintetici, pensanti e razionali. Nessuno di loro aveva, però, impresse nel proprio pseudo-cervello le conoscenze dei due pianeti di Hope1 e Spes1. Erano state sufficienti ai loro “genitori” per prendere l’unica decisione possibile.

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10 Commenti

  1. Non ho capito il senso di questo articolo. Mi e’ sembrato di leggere una delle pagine dei miei romanzi scritti rigorosamente da fumato. Comunque mi sembra che fosse di Hawkings la frase: quando incontreremo gli alieni, sara’ la nostra fine.
    Comunque Vincenzo, sei sempre il migliore.

  2. .. molto plausibile far viaggiare delle macchine, nello spazio, invece che dei fragili e limitati umani.. sarebbe anche fantastico (in fututo) poter far partire dei volontari per un viaggio interstellare stile star trek.. in fondo lo spazio e l’universo fanno parte del nostro “mondo” esattamente come gli abissi marini o le vette delle montagne e non scordiamoci che la terra non esisterà per sempre..

  3. Caro enzo sono perfettamente in sintonia con mario carrara,infatti a parte il racconto di fantascienza che presenti,onestamente credo che noi non siamo l’unica razza predatrice nè nella galassia tanto meno nel nostro universo,l’unica cosa che ci stà salvando le chiappe per cosi dire sono le enormi distanze tra una stella ed un altra e tra una galassia ed un altra,e forse anche il fatto che per “gli alieni” siamo una razza stupida,meschina e forse pericolosa da contattare,oppure e il contrario come dice anche Hawking mà chi può dirlo con certezza ma una cosa e certa e che siamo pericolosi già per noi stessi basta vedere le II atrocità mondiali del 900 per rendersene conto e forse la fortuna della nostra galassia e che siamo inchiodati a questa terra almeno per ora!
    Ciao a tutti! 👿

  4. E così nacquero i Cyloni :mrgreen:

    Io invece propongo una “teoria”, che non dico di condividere, ma non posso escludere a priori fino a prova contraria: e se i mondi “abitabili” fossero stati DI PROPOSITO messi così lontani, isolati e vicendevolmente irraggiungibili, in modo che ognuno possa contemplare il Creato, ma nessuno possa “inquinare” altri? Ogni mondo libero di scegliere se, quali e quanti “peccati originali” commettere…

  5. Ho l’impressione che questo racconto dica : e se fossimo discendenti di Hope1 e Spes1 ???.
    Bello comunque il racconto fa riflettere.

  6. Vediamo: non ne colgo immediatamente il senso. Sono purtroppo troppo condizionato dai libri di Asimov. Se i roboto fossero stati condizionati dalle 3 leggi della robotica, la prima li avrebbe costretti a tornare indietro con le rispettive informazioni. A meno che ad aver la meglio fosse stata la legge 0, ovvero i robot han capito che per il bene dell’umanità era meglio evitare un qualsiasi incontro fra le due razze.
    Ma forse le 3 (4) leggi della robotica qui non c’entrano nulla!

  7. questo racconto per me dice: enzo è davvero bravo a scrivere raccontini di fantascienza.
    😉

  8. cari ragazzi,
    il succo è molto semplice…
    chi ci conosce bene cerca di evitarci e tutti i “mondi” sono paesi!

  9. caro fabio,
    o, forse, la legge 0 viene automaticamente impressa senza intervento del costruttore…. o è legge vera dell’Universo…

  10. Già mandiamo delle macchine su marte, molto “rudimentali” rispetto ai robot narrati.