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    Risolto l’enigma della galassia Henize 2-10

    Risolto l’enigma della galassia Henize 2-10
    Da tempo si parlava di questo misterioso buco nero trovato al centro della galassia a 30 milioni di luce da noi. Arrivano nuove conferme e con future osservazioni si potrà capire di più sulla nascita delle galassie nell'Universo primordiale
    di Eleonora Ferroni


    hubble-HENIZE-2-10-galaxy-buco-nero-nascosto.jpg
    L’immagine è stata scattata dall’Hubble Space Telescope (NASA/ESA) che fra qualche giorno compirà 25 anni. Nella foto si vede la galassia Henize 2-10, che nasconde un buco nero supermassiccio. Crediti: NASA


    Su Media INAF ne avevamo già parlato nel 2011: la galassia Henize 2-10 nasconde un buco nero supermassiccio al suo centro. Ma dal momento della sua scoperta c’è sempre stato un alone di mistero attorno a questo oggetto. La galassia irregolare dista da noi 30 milioni di anni luce ed è stata classificata come galassia nana proprio perché di dimensioni ridotte, 3.000 anni luce di estensione (la Via Lattea ha un diametro di 100.000 anni luce). Le sue caratteristiche, unite ad un elevato tasso di formazione stellare, ne fanno anche un perfetto caso di studio relativo alle galassie primordiali, cioè le prime che si sono formate nel nostro Universo.


    «Questa galassia nana è circa il 10% della nostra Via Lattea. A un primo sguardo sembra un macchia informe, ma sorprendentemente nasconde un buco nero centrale», ha detto Ryan Hickox, secondo autore dello studio pubblicato su The Astrophysical Journal Letters. Hickox ha detto che ci possono essere piccole galassie simili nell’Universo conosciuto, ma questa è una delle poche abbastanza vicine da poter essere studiate agevolmente. Il team di ricercatori guidati da Thomas Whalen ha analizzato una serie di quattro osservazioni ai raggi X di Henize 2-10 con tre telescopi spaziali realizzate nel corso di più di 13 anni, fornendo la prova definitiva dell’esistenza di un buco nero. Gli strumenti utilizzati sono il giapponese Advanced Satellite for Cosmology and Astrophysics (1997), l’XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea (2004, 2011) e l’osservatorio a raggi X Chandra della NASA (2001).


    «La galassia era luminosa nel 2001, ma si è affievolita nel corso del tempo», ha spiegato Hickox. E questo vuol dire che doveva esserci un’altra fonte di energia oltre al processo di formazione stellare. I ricercatori hanno pensato subito a un piccolo buco nero supermassiccio – piccolo rispetto ai più grandi buchi neri supermassicci in massicce galassie ellittiche, ma comunque un milione di volte la massa del Sole. Ciò che rende particolari questi buchi neri è che cambiano con il tempo «ed è questo ciò che ha trovato Tom Whalen», ha detto Hickox aggiungendo: «Questa variabilità sicuramente ci dice che l’emissione proviene da una fonte compatta al centro di questo sistema, in linea con un buco nero supermassiccio».


    Come è noto, la maggior parte dei buchi neri si trova al centro delle galassie, per la precisione al centro del cosiddetto “bulbo” galattico (bulge in inglese) di cui, però, è sprovvista Henixe 2-10. Per questo fino a poco tempo si pensava che la galassia non potesse avere un buco nero all’interno. Ma è stato provato esattamente il contrario. Ma da dove viene il buco nero? «Quando si effettuano simulazioni sulla provenienza delle galassie, bisogna prima di tutto inserire i buchi neri, ma non conosciamo le condizioni iniziali. Queste galassie starburst nane sono gli esemplari più vicini a noi che possono aiutarci a capire com’era fatto l’Universo primordiale», ha detto Whalen.


    Il primo autore ha inoltre specificato: «I nostri risultati confermano che le galassie a noi vicine con un processo di formazione stellare in atto possono formare buchi neri, ne consegue che ugualmente potrebbe essere successo alle loro simili nell’universo primordiale».


    Per saperne di più:


    Leggi QUI l’articolo pubblicato su The Astrophysical Journal Letters: “Variable Hard X-ray Emission from the Candidate Accreting Black Hole in Dwarf Galaxy Henize 2-10“, di Thomas J. Whalen et al.


    Articolo originale QUI.

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