
A differenza degli ammassi globulari, composti da stelle la cui origine è solitamente molto remota, gli ammassi aperti si presentano con distribuzioni di età di gran lunga più ampie. Alcuni sono formati da stelle incredibilmente giovani, formatesi solo pochi milioni di anni fa, mentre ve ne sono altri le cui componenti risalgono persino a più di dieci miliardi di anni or sono. Riuscire, dunque, a determinare la composizione chimica delle stelle appartenenti a differenti ammassi aperti ci può dare preziose indicazioni sulla disponibilità di materiale all’epoca della loro formazione e, di conseguenza, chiarirci le idee sulle tappe evolutive attraversate dalla stessa galassia.
Sulla carta il metodo non fa una grinza, peccato che la sua applicazione non sia così facile come sembra. Un recentissimo studio pubblicato su Astronomical Journal e compiuto da un team internazionale, però, mostra che questa tecnica potrebbe davvero offrire ottimi risultati. Primo autore dello studio è Gayandhi De Silva (ESO), che con altri cinque astronomi ha studiato l’omogeneità chimica delle stelle appartenenti a Collinder 261, un ammasso aperto che si trova a 25 mila anni luce dal centro galattico.
L’analisi – per compiere la quale il team ha impiegato l’Ultraviolet and Visual Echelle Spectrograph (UVES) del VLT dell’ESO – ha comportato l’osservazione di decine di giganti rosse dell’ammasso, stelle scelte perchè la loro elevata luminosità le rende particolarmente adatte a simili delicate misure. Da queste accurate osservazioni, De Silva e collaboratori hanno dedotto le abbondanze di un ampio gruppo di elementi chimici dimostrando in modo estremamente convincente che tutte quelle stelle condividono la stessa composizione chimica.
La bontà del metodo è stata poi verificata confrontando le composizioni ottenute per Collinder 261 con quelle di altri due ammassi, le Iadi e il gruppo di stelle che condividono lo stesso moto di HR1614, una binaria spettroscopica distante 28,7 anni luce nell’Eridano. Il confronto ha messo in luce che ciascun ammasso aperto ha una composizione che lo differenzia dagli altri, chiaro segno che ciascuno di essi si è formato in una nube caratterizzata da una ben precisa composizione chimica.
“Gli ammassi galattici sono testimoni attendibili delle fasi attraversate dalla Via Lattea nella sua formazione – ha commentato Kenneth Freeman, astronomo dell’Osservatorio di Mount Stromlo e appartenente al team – il loro studio, perciò, è un po’ come quello dei fossili. Si potrebbe quasi dire che stiamo indagando sui frammenti del DNA della Via Lattea.”
Sarà pur vero, come ha sottolineato lo stesso De Silva, che il cammino per un uso intensivo di questa tecnica è ancora lungo, ma i risultati ai quali ci potrebbe portare hanno tutta l’aria di essere davvero incredibili.
Fonte: Coelum