Come Enzo ha già ben illustrato nei suoi articoli, l’esperimento di Young del 1801 sembrava aver chiuso la lunga battaglia tra i sostenitori di Newton (per cui la luce era costituita da minuscole particelle) e quelli di Huygens (che sosteneva credeva che la luce fosse costituita da onde). Tutto sembrava ben chiaro, soprattutto dopo che Maxwell aveva rinchiuso nelle sue equazioni tutto quello che si sapeva su elettricità e magnetismo, riunendo le due forze in un unico fenomeno e chiarendo che la luce era costituita da onde elettromagnetiche. Ma non tutto girava nel modo giusto. C’erano ancora diverse cose che non tornavano, e due in particolare: la radiazione del corpo nero e l’effetto fotoelettrico.
L’inizio di una catastrofe
Sappiamo tutti, per averlo prima o poi sperimentato, che un corpo riscaldato emette una serie di radiazioni, e anche visivamente possiamo apprezzarne il cambiamento di colore man mano che la sua temperatura aumenta e diventa incandescente. Anche il corpo nero emette radiazioni a seconda della temperatura in cui si trova. “Ma come è possibile che un corpo nero emetta una radiazione?”, vi chiederete. “In fondo, qualsiasi cosa che sia nera, proprio per definizione, non emette radiazioni, ma le assorbe…”

Beh, il corpo nero di cui parliamo non è semplicemente un qualcosa che abbiamo dipinto di nero. L’oggetto di cui parliamo è un “oggetto della mente”, un qualche cosa che può assorbire qualsiasi radiazione senza rifletterla né trasmetterla. Proprio per questo motivo, per il principio di conservazione dell’energia, una volta che assorbe la luce è destinato a riemettertela, a tutte le lunghezze d’onda.
Può essere pensato come una scatola con un piccolo forellino in cui la luce può entrare, ma ben difficilmente può uscire. Un esempio lo potete vedere qui a fianco.
E’ un oggetto molto importante per la fisica, ma soprattutto per l’astronomia, perché nello spazio troviamo numerosissimi oggetti che si comportano pressappoco come lui: le stelle! QUI potete trovare un articolo di Enzo che spiega come e perché le stelle somigliano ad un corpo nero.
Bene, proprio perché una stella è un oggetto molto simile ad un corpo nero, c’erano abbastanza esempi per confrontare quanto si osservava con la teoria. Ma cosa diceva la teoria?
Con una serie di considerazioni piuttosto lunghe e complesse, e che non sto a riportare, si arriva a comporre una legge, che è nota come legge di Rayleigh–Jeans e che lega le lunghezze d’onda e l’energia emessa alla temperatura del corpo. Applicando la formula così ricavata, però, si giunge ad un dato assurdo: il corpo nero deve emettere luce a tutte le lunghezze d’onda possibili (che sono infinite), in più, deve emettere luce sempre più intensa man mano che aumenta la frequenza della luce.
Di fatto, anche un corpo nero a temperatura relativamente bassa avrebbe dovuto emettere una quantità di energia infinita, e l’energia emessa doveva aumentare tanto rapidamente, che già i raggi ultravioletti avrebbero dovuto essere emessi con un’intensità praticamente infinita: una “catastrofe ultravioletta”, come la chiamarono.

Era abbastanza evidente, invece, che non era così. Le stelle, che sono i corpi che più si avvicinano al corpo nero, emettono luce con una curva caratteristica che dipende dalle temperatura e, ovviamente, l’energia che irradiano non è affatto infinita.
Il problema era stato affrontato in molti modi, ma nessuno era riuscito ad ottenere una curva che corrispondesse in pieno ai dati rilevati. Con la fisica classica non si riusciva in nessun modo a venirne a capo.
E, difatti, per arrivare ad una soluzione bisognava superare la fisica classica. In particolare, il problema della legge di Rayleigh–Jeans risiedeva nel fatto che l’energia veniva considerata come un fluire continuo da valori più bassi a quelli più alti, un po’ come un fiume che scorre.
Questa impasse perdurò finché Max Planck, che stava da lungo tempo lavorandoci sopra, non si risolse ad adottare una soluzione “per un puro atto di disperazione”, come ebbe a dire. Partendo da una serie di considerazioni statistiche divise l’energia in quantità discrete, indivisibili e indistinguibili le una dalle altre, che chiamò “quanti”. L’energia, e con essa la radiazione elettromagnetica che la trasportava, doveva fluire per quantità discrete multiple di una quantità base.
Arrivò quindi a proporre una formula che lega l’energia alla frequenza della luce mediante una costante, che chiamò h, e che oggi conosciamo come “costante di Planck”. E’ definita come un’energia per unità di tempo, e vale circa 6,626 x 10-34 Joule per secondo. Come potete vedere, è una quantità davvero minuscola, e questo permette ancora di considerare il fluire dell’energia come un tutt’uno, esattamente alla stregua delle gocce di acqua che compongono un grande fiume.
L’energia delle onde elettromagnetiche doveva quindi fluire secondo la formula E=hν, dove E è l’energia, h è la costante di Planck e ν è la frequenza della radiazione.
E’ abbastanza facile immaginare lo sgomento di Planck nell’adottare una soluzione così radicale. E, in effetti, per un certo periodo la considerò un mero espediente di calcolo.
Finché un giovane fisico, appena 5 anni dopo che Planck ebbe formulato la sua ipotesi, non le diede un ben più ampio significato: era Albert Einstein. Ma di questo ne parleremo nella seconda parte….
Bell'articolo, complimenti!
Però ti sei fermato sul piu bello, come al cinema quando fanno la pubblicità tra il primo e secondo tempo!
Domani devi postare la continuazione!
Grandissimo!
Sinceri complimenti per l'articolo
Posso fare una domanda insidiosa? come si ottiene sperimentalmente il valore della costante di Planck?
Grazie per l'ottimo articolo!!!
E' talmente semplice, che lo si può fare anche a casa....
Ero in attesa dei tuoi articoli Red, sia per i contenuti che per la curiositá di vedere "come" li avresti scritti....Che dire? L'attesa é stata ripagata in pieno!
Davvero molto ben fatto e talmente chiaro che si fa fatica a trovare spunti per fare domande.....quindi rimangono solo i complimenti! Grande Red!
Ottimo articolo! Ho subito una domanda.
Visto che E è limitata a multipli di hv, in realtà è quantizzata fintantoché non cambio v.
Ma io posso variare v in modo continuo (no?) e quindi, variando v, posso trasmettere energia del valore che desidero. Funziona in modo strano questa quantizzazione. Non trovi?
Ma, all'interno di una data quantità di energia, potremo accedere ad essa solo tramite valori discreti, e comunque non inferiori ad h, qualsiasi sia la ν che noi prendiamo in riferimento. Questo ha un'effetto pratico: per ogni coppia di ν e di E scelta, avrai solo un numero limitato di fotoni (che sono i mediatori di energia del campo elettromagnetico). Non potrai mai trovare mezzo fotone, o un quarto di fotone ecc. Solo fotoni interi...
Vado subito a un hobby center! (credo avrò qualche difficoltà a reperire i filtri!!)