Questa parte della nostra avventura nell’ottica è senza dubbio una delle più importanti e complicate. Tuttavia, ho cercato di renderla il più semplice possibile tralasciando qualsiasi formula e/o concetto un po’ astruso. Penso di avere ottenuto il massimo con il minimo sforzo (vostro). Non pensate, però, che una trattazione di questo tipo possa risolvere tutti i problemi legati alla luce che attraversa una fenditura o un’apertura qualsiasi. Per descrivere compiutamente tutti i fenomeni sarebbe necessario un libro corposo e forse più di un uno. Basti dire che non possiamo più accontentarci dell’ottica geometrica. L’importanza, però, è enorme e non si limita certo alla definizione dell’immagine di un oggetto celeste data da uno strumento ottico, sia naturale (occhio) che artificiale (telescopio). Per chi è più esperto basterebbe ricordare l’interferometria e i reticoli di diffrazione: le applicazioni teoriche e tecnologiche apparirebbero in tutta la loro vastità. Niente paura, noi ci fermeremo ai concetti base, quelli che poi potrebbero permettere a chiunque di entrare più a fondo nelle varie problematiche collegate. Mi raccomnado, non andate avanti senza prima aver digerito questo articolo!
Facciamo una breve premessa alla storia del pescatore. Ormai sapete bene che la luce può essere decritta in due modi altrettanto validi: quello corpuscolare (fotoni) e quello ondulatorio. Tuttavia, quando si ha a che fare con l’interazione della luce con qualche ostacolo, la teoria basata sulle simpatiche particelle che la trasportano non riesce più a dare una spiegazione valida. Diventa obbligatoria la trattazione in termini di onde che si propagano.
Per darne un’idea concreta, immaginiamo che la luce proveniente da una stella, ossia da una sorgente puntiforme che produce a grande distanza un fascio di raggi paralleli (ricordate?) si avvicini a un ostacolo. Esso è rappresentato da due muri che lascino libera solo una piccola apertura. Proprio quello che fa il molo che separa il porto dal mare aperto.
Dato che sapevamo che la luce può essere rappresentata da particelle che viaggiano in linea retta, il percorso di queste ultime (sempre i fotoni, ovviamente) potrebbe essere descritto perfettamente dal raggio luminoso che abbiamo imparato a usare nell’ottica geometrica. Un fascio di questi raggi sarebbe quindi un fascio di fotoni che si muovono tutti insieme nello stesso verso e paralleli tra loro, come rappresentato in Fig. 1.
Essi si trovano di fronte due muri neri che lasciano libera solo una piccola apertura. I fotoni non hanno una grande scelta, dato che possono muoversi SOLO in linea retta. Quelli che vanno contro il muro si devono fermare lì (o si riflettono o si rifrangono, ma conta poco adesso). Riescono a passare solo quelli che sono diretti proprio verso l’apertura aperta. Muovendosi in linea retta essi proseguono il loro cammino. Ne segue che il fascio di luce che entra nell’apertura ha esattamente la sezione dell’apertura. Solo questo fascio, sempre composto da rette parallele tra loro, trasporta la luce. Tutt’attorno c’è il buio. La vota scorsa eravamo arrivati a questo punto.
Chi fosse nella zona grigia non vedrebbe niente perché nessun raggio di luce potrebbe colpirlo. Nella parete di fondo (a destra) il fascio illuminerebbe esattamente una zona con la forma dell’apertura. E questa parte illuminata avrebbe i contorni perfettamente definiti, con un errore pari alle dimensioni di un fotione, quindi zero, senza penombra o cose simili. Infatti, il fotone o passa o non passa, ossia o vi è luce o vi è buio.
La Fig. 1 sarebbe molto semplice e forse anche comoda (ma non avrebbe permesso tante scoperte e tante conquiste scientifiche). Sicuramente permetterebbe a uno strumento ottico di concentrare la luce in modo perfetto. Purtroppo -o per fortuna- non capita questo. Ciò che succede realmente, in modo molto semplificato e approssimativo, è rappresentato nella Fig. 2. Non solo la luce entra e prosegue lungo il fascio orizzontale, ma tutta la zona che dovrebbe essere al buio risulta più o meno illuminata. Chi o che cosa può illuminare questa parte nascosta dai due muri? I fotoni non possono di certo averlo fatto.
L’unica conclusione è che non possiamo più trattare la luce soltanto come raggi paralleli (fotoni o non fotoni), ma come qualcosa che risente in modo macroscopico del fatto di essere entrata all’interno di un’apertura più o meno piccola. Attenzione: questo avviene sempre e non dipende assolutamente da riflessioni “strane” che avvengono all’interno del “porto”, ossia nella zona dopo l’apertura. L’unico modo per descrivere la realtà è abbandonare i nostri simpatici fotoni e considerare la rappresentazione ondulatoria della luce.
A questo punto possiamo tranquillamente tornare dal nostro pescatore che sta chiacchierando allegramente con i suoi amici sul molo d’ingresso al porto della sua nuova città. E’ una giornata abbastanza ventosa e le onde che si susseguono sono piuttosto alte. La situazione è quella di Fig. 3, dove il molo M e il pescatore O sono visti dall’alto.
Le onde piane e parallele tra loro arrivano fino all’apertura A del porto. Potrebbero benissimo essere rappresentate da linee, a loro perpendicolari, anch’esse tutte parallele, proprio come abbiamo fatto nell’ottica geometrica con la luce di una stella puntiforme lontanissima. In altra parole, anche le onde marine potrebbero essere descritte da un fascio di raggi paralleli alla freccia arancione.
In realtà, le onde entrano nel porto e sembrano proseguire come prima dell’apertura. Ma non tutte. Si crea una strana forma del moto ondoso. Le onde non sono più piane e parallele, ma sembrano girare attorno ai punti d’entrata. La visione generale assomiglia a una circonferenza o qualcosa di simile. L’origine di questa struttura ondulatoria sembra provenire proprio dall’apertura. Se si tracciassero i raggi perpendicolari alle onde questi andrebbero in tutte le direzioni. Non solo, ma l’altezza delle onde sembra anche variare come se “interferissero” tra loro.
Il pescatore si accorge subito che sta assistendo a un fenomeno generale non solo causato dal vento o da qualche situazione peculiare. Ormai è diventato troppo curioso e non può più dare una scrollata di spalle e dire: “Boh… che sia quel che sia”. Decide di verificare ciò che ha visto in condizioni analoghe in cui, però, l’apertura dovuta al molo sia di dimensioni diverse. E’ convinto che il segreto stia proprio lì, nella larghezza dell’apertura A. Girando per il porto trova facilmente altri moli che soddisfino le condizioni che sta cercando. Ne traccia dei disegni e poi li confronta tra loro nella Fig. 4, mettendoli in ordine di apertura decrescente.
Aveva proprio ragione. Esiste proprio una serie di onde circolari che nascono in corrispondenza dell’apertura tra i moli. E più il buco di entrata è piccolo e più è nitida la struttura delle onde. Analizza ancora meglio le quattro situazioni. Nella prima sembrerebbe che l’onda entri e si mantenga piana come nel mare aperto. A prima vista però. Guardando meglio vede ciò che è indicato dalla freccia bianca. In prossimità dei moli l’onda diventa circolare, come se volesse girare attorno all’ostacolo presentato dai muri del molo. La stessa configurazione che aveva notato nel molo iniziale.
Non è allora l’apertura a causare quello strano gioco di onde, ma le sue due estremità. Ovviamente, se l’apertura è molto piccola le onde che nascono dalle due estremità si accavallano e sembrano diventare una sola, quasi circolare, come nell’ultima immagine a destra. Si ferma, posa i suoi disegni e guarda verso il mare. No, non sta più cercando il pesciolino dispettoso, sta solo pensando e riflettendo. Onde marine e onde luminose. Sono simili in tante cose perché non anche nei loro comportamenti attraverso le aperture più o meno strette? Corre a casa, prende una risma di fogli di carta e una matita e si dirige ormai sorridente verso i suoi amici del molo. Ne vuole discutere con loro, ma ormai le idee gli si sono chiarite. E’ ovvio, accidenti. In fondo c’era proprio da aspettarselo!
Si siede su uno dei gradoni e chiama a raccolta i pescatori che posano volentieri le loro canne per imparare qualcosa di nuovo: i pesci possono anche aspettare. Pochi minuti e il nostro “esperto” in ottica ondulatoria disegna la Fig. 5. Sembra un po’ caotica, ma lui la spiega con grande precisione e semplicità. Riporto una sintesi della sua descrizione.
Immaginiamo che ogni onda luminosa che proviene da una stella lontana sia come l’onda del mare e possa essere disegnata come una retta verticale rossa. La sua direzione è data dalla freccia nera. Immaginiamo adesso che ogni punto dell’onda sia capace di generare una nuova onda che si propaga verso l’esterno come quella che è nata dalla stella che l’ha originata, ossia sia di forma circolare. In altre parole, come se ogni punto generasse un cerchio di onde che si allarga come quando buttiamo un sasso nell’acqua. Ogni punto diventerebbe, quindi, una sorgente luminosa. Miliardi di miliardi di piccoli sassi che producono miliardi di miliardi di onde concentriche tutte uguali tra loro.
Piccolo inciso: il pescatore non lo sa ancora, ma sta enunciando nientemeno che il principio di Huygens che recita così: “Ciascun punto di un fronte d’onda si può considerare come una sorgente elementare di altre onde che si propagano nella medesima direzione del fronte d’onda stesso. Il fronte d’onda successivo è il risultato dell’inviluppo totale di tutte le onde elementari”.
Non posso disegnare miliardi di punti, ma posso semplificare le cose e disegnarne solo qualcuno a una certa distanza tra loro. Può bastare per capire cosa succede. L’onda, che sembra una linea, avanza ed è composta da tanti cerchi tutti uguali che si propagano in avanti e si intersecano tra loro. In realtà, nel vuoto dello spazio o nel mare aperto, le cose non cambiano di molto rispetto all’insieme di onde rettilinee e/o dei raggi perpendicolari che le possono rappresentare nell’ottica geometrica. Abbiamo, comunque un “fronte” d’onda che è formato da tutte le onde nate da tutti i punti dell’onda totale. La situazione ha solo cambiato la sua essenza profonda ma non l’aspetto esteriore. E così continuerebbe a essere se la luce non si trovasse di fronte il molo.
I punti E1 ed E2 sono gli estremi in cui possano ancora nascere onde nel modo appena descritto. Dopo di loro c’è il muro del molo e le onde s’infrangono e non possono proseguire. Ma se, come ipotizzato, anche nei punti E1 ed E2 nascono due sistemi di onda circolari essi determinano una curvatura del fronte d’onda che gira intorno ai due punti e si propaga anche nelle zone interne, teoricamente “riparate” dai moli. E’ proprio come nella Fig. 2 che abbiamo disegnato poco fa.
La luce o l’acqua gira attorno ai limiti del molo e si propaga dove non potrebbe andare se fosse formata da particelle libere di muoversi sono in linea retta. Teoricamente, se il porto fosse completamente asciutto e si aprisse improvvisamente la porta che chiude l’apertura del molo, l’acqua dovrebbe entrare secondo onde piane e parallele e proseguire solo nella direzione dell’apertura come disegnato, per la luce, nella Fig. 1. E invece l’acqua riesce in fretta a giungere anche nelle zone più nascoste del porto e non perché qualcuno la spinge o perché c’è troppo vento. No, solo perché alle estremità del molo si generano onde circolari che si propagano anche negli angoli più riparati. Basta disegnare nuove onde circolari anche nella parte delle onde che vanno oltre l’apertura e che girano attorno a E1 ed E2. Onde circolari che nascono da punti che sono già essi su linee curve “piegate” rispetto a quelle originarie. Le due estremità E1 ed E2 hanno creato due strutture di onde concentriche che originano nuove strutture allargando il fronte d’onda diretto verso l’interno del porto. Cosa si vedrà alla fine? Non certo tutte le onde formate da ogni singolo punto, ma l’inviluppo di loro come disegnato nella Fig. 6. E, la Fig. 6, è esattamente ciò che il nostro eroe aveva disegnato nella Fig. 3 o nella seconda immagine da sinistra della Fig. 4.
La teoria ondulatoria ha permesso di spiegare un fenomeno che sembrava impossibile con l’ottica corpuscolare o con quella puramente geometrica. Il pescatore ormai esperto in ottica tira un grande sospiro di soddisfazione e guarda casualmente verso l’acqua. Sarà un effetto ottico, ma gli sembra che un numero incredibile di pesci, di tutte le grandezze e colori, gli stiano facendo una specie d’inchino! Ah, quest’ottica… quanti scherzi è capace di fare. Ma lui non ci casca più!
A questo punto non gli è nemmeno difficile disegnare ciò che capita dopo un molo con un’apertura estremamente stretta e la fa con molta facilità nella Fig. 7. L’apparenza è proprio quella di un onda piana che si trasforma in un sistema di onde circolari concentriche. Che magia la luce e le sue leggi!
Per capire meglio la magia ricordiamo come sono fatte le onde del mare e quelle della luce (e non solo) viste di taglio e non dall’alto. Esse sono come quelle dalla Fig. 8, in alto a sinistra: un linea che sale e che scende in continuazione. La distanza tra due massimi è chiamata lunghezza d’onda λ e caratterizza il tipo di luce (ricordate i colori?). Le linee rette (e anche quelle circolari) viste dall’alto si riferiscono, ad esempio, ai punti più alti del saliscendi. Tra una linea e l’altra vi è la zona di minimo di luce.
In realtà l’onda sferica che avanza è molto più complicata di quello che sembra, ma per affrontare questa parte bisognerebbe fare ricorso a formule matematiche molto complicate. Non ce n’è, però, veramente bisogno. Si può cercare di capire cosa succede attraverso un paio di ragionamenti, estremamente semplici.
Consideriamo la Fig. 9 e immaginiamo che l’apertura sia veramente piccola, piccola come la lunghezza d’onda. La sua larghezza sia D. La distanza tra l’apertura e uno schermo p varia a seconda della direzione dei raggi luminosi perpendicolari in ogni punto all’onda circolare che si origina nell’apertura (o dai suoi bordi che però sono praticamente coincidenti). La distanza apertura-schermo è minima andando dritti, mentre cresce se consideriamo raggi che piegano rispetto alla linea orizzontale (stiamo parlando di triangoli rettangoli, di cateti e di ipotenusa).
La differenza di lunghezza del percorso fatto dalla luce ci indica anche che mentre si ottiene un massimo di luce con la linea dritta, la linea diagonale arriva sullo schermo con un minimo di luce. La differenza tra di loro è, per costruzione, dell’ordine della lunghezza d’onda e non è difficile calcolare quanto vale l’angolo ϑ tra i due minimi esterni rispetto al massimo centrale di luce sullo schermo.
L’angolo è anche una misura angolare delle dimensioni della zona centrale più luminosa, dato che va da un minimo a un altro e confina proprio con la parte luminosa centrale. Vogliamo scrivere la formula risultante per questo angolo? Non pretendo di ricavarla, ma è talmente importante che è fondamentale ricordarsela (ci sarebbe un seno dell’angolo, ma per angoli piccoli si può sostituirlo con lo stesso angolo espresso in radianti):
ϑ = λ/D
Anche se non è facile ricavarla, la stessa formula vale anche per una fenditura larga. Tutti coloro che guardano il cielo dovrebbero conoscerla, sia che usino l’occhio sia che usino un telescopio. Che cos’è infatti D? Nient’altro che l’ingresso al sistema ottico, l’apertura dello strumento. Poi ci penserà lui a concentrare la luce in un punto e farcela vedere direttamente o tramite lenti e specchi.
Come mai sullo schermo p non abbiamo una linea che sale e che scende, mantenendo sempre lo stesso livello dei massimi? Beh, come dicevo prima, la trattazione dell’onda che si genera nei punti, dopo che la luce è entrata nel porto, è più complicata di quello che può sembrare. Ne potete avere un’idea guardando la Fig. 3, dove si vede bene che spostandoci dalla zona centrale vi sono zone più chiare e più scure. Questo vuole anche dire che i massimi diventano sempre meno alti andando verso i bordi. Perché capita questo? Non è semplice, ma possiamo immaginare qualcosa di molto simile a quello che vediamo nella Fig. 8 nella sua parte bassa sia a destra che a sinistra. Due onde “sfasate” tra loro possono dar luogo sia a un’onda risultante che è la somma delle due si a una che è praticamente nulla, dato che i massimi di una capitano in corrispondenza nei minimi dell’altra. Mentre le onde generate dalle due estremità dell’apertura avanzano, interagiscono tra loro e l’onda finale risultante assume un aspetto irregolare nella sua altezza. Non è proprio esatto, ma è abbastanza veritiero e sufficientemente comprensibile,
Tuttavia, qualsiasi cosa riesca a fare lo strumento, con il fascio di luce che è entrato attraverso l’apertura, non potrà mai vietare che l’immagine finale sia formata da una serie di massimi e minimi di luce. La parte più visibile è quella centrale che viene considerata come immagine finale. Se ricordiamo che tutto è partito da una stella puntiforme, l’immagine a saliscendi dello schermo è proprio l’immagine della stella, che è più grande della stessa apertura, quando questa è molto stretta.
Cosa si vedrà, allora, sullo schermo se immaginiamo che anche quel poco di luce che filtra attraverso l’apertura sia sufficiente a proiettare un’immagine sullo schermo anche senza essere concentrata? Una struttura a strisce più chiare e più scure, dove quella centrale, relativa al massimo principale, è più luminosa delle altre relative ai massimi successivi, sempre meno luminosi. Una struttura sì, ma con quale forma? La forma finale, proprio per come si è ottenuta, dipende solo e soltanto dalla forma dell’apertura.
Per lo studio dell’ottica ondulatoria e delle interferenze tra onde sfasate e cose del genere si usano fenditure molto strette o un insieme di fenditure (reticolo). Nei telescopi si usano invece fenditure (aperture) più larghe, di forma circolare. Nei telescopi formati da tanti tasselli, le forme di questi ultimi danno la forma finale di una sorgente puntiforme, ad esempio ad ottagono. La fig. 10 mostra le immagini per diversi tipi di apertura.
Quella circolare viene chiamata disco di Airy ed è la più piccola immagine di una stella puntiforme che si può ottenere. Il suo diametro angolare è proprio l’angolo ϑ e questo ci dice la grandezza minima di qualsiasi immagine puntiforme. E’ un limite invalicabile in natura che non dipende né dall’atmosfera, né dal vetro o dalla lente né dalla distanza focale. Essa dipende solo e soltanto dalla lunghezza d’onda della luce che vogliamo vedere e -soprattutto- dal diametro dell’apertura del telescopio, D. Più esso è grande e più piccolo é il diametro dell’immagine centrale (e più deboli sono gli anelli che la circondano nel caso di apertura circolare).
Fatemi ripetere questo concetto fondamentale. L’ottica ondulatoria ci costringe ad avere sempre un’immagine non puntiforme di una sorgente puntiforme. Si può solo cercare di ridurre il suo diametro angolare aumentando le dimensioni dell’obiettivo del telescopio (D). Niente di più. Una stella apparirà sempre come un dischetto luminoso di dimensioni piccole ma non nulle. Se l’apertura è piccola, è più facile distinguere anche gli anelli più deboli e concentrici che accompagnano la parte centrale più luminosa. Questa figura che nel caso di un obiettivo circolare (occhio, telescopio, binocolo) ci porta al disco di Airy si chiama figura di diffrazione. Il fenomeno causato dalla luce che passa attraverso un’apertura viene chiamato diffrazione della luce e su di essa si basano un numero enorme di strumenti astronomici.
Nel caso di apertura circolare una lunga e faticosa trattazione matematica porta a una formula dell’angolo ϑ (il diametro del disco di Airy), che è leggermente diversa da quella trovata per la fenditura stretta e lineare:
ϑ = 2.44 λ/D
Una formuletta che tutti coloro che hanno un telescopio dovrebbero conoscere come le loro tasche. E’ infatti lei che definisce il valore minimo dell’immagine finale di una stella puntiforme.
Attenzione, però. Il disco di Airy non ha niente a che vedere con l’aberrazione sferica, il coma, l’astigmatismo, il seeing atmosferico e mille alti problemi che rendono estesa un’immagine stellare. Contro la diffrazione non c’è niente da fare. Ce la dobbiamo tenere. Tuttavia, è perfettamente controllabile e può servire per determinare distanze piccolissime nel Cosmo, quando si usa per gli interferometri o per simulare telescopi virtuali di dimensioni anche planetarie.
A questo punto diventa ovvia la definizione di potere risolutivo di un telescopio (ma anche dell’occhio). Si è stabilito che due stelle puntiformi siano ancora visibili come dischetti separati tra loro quando il massimo della figura di diffrazione di una coincide con il primo minimo dell’altra. Questa separazione prende il nome di potere risolutivo di un telescopio. Ovviamente dipende in parte dalla lunghezza d’onda, ma, a parità di questa, dal diametro dell’obiettivo: più è grande e maggiore è il potere risolutivo.
La Fig. 11 ci mostra quanto detto a parole e mostra l’intensita luminosa di una coppia di stelle che abbiano una distanza pari al potere risolutivo. Esse rappresentano il limite per essere separate da un certo telescopio. Limite teorico, ovviamente, dato che si può facilmente peggiorare la grandezza del disco di Airy. Tuttavia, vi sono stati (e vi sono forse tuttora) grandi osservatori di stelle doppie visuali che riuscivano ad andare anche sotto il potere risolutivo del proprio telescopio sulla base di piccole deformazioni dell’immagine osservata. Attenzione, però. Sto parlando non solo di accorgersi che una stella è “probabilmente” doppia, ma di riuscire a misurare la distanza tra le due componenti. Tra parentesi, malgrado io sia un planetologo da sempre, nel lontano 1986 avevo collaborato a un articolo scientifico sul potere risolutivo (QUI) , scoprendone un “effetto” particolare che potrebbe interessare a qualche osservatore odierno di stelle doppie.
Il potere risolutivo è quindi dato da:
R = ϑ/2 = 1.22 λ/D
Per come è stato definito è, ovviamente, la metà del disco di Airy.
La Fig. 12 riporta le immagini di una serie di stelle doppie a distanza diverse. la seconda in alto si riferisce a una separazione pari al potere risolutivo del telescopio.
Ovviamente, non solo un’apertura crea figure di diffrazione. L’importante per farla nascere è che ci siano dei “bordi” di un qualcosa che ostacola la propagazione della luce. Vale quindi anche per un ostacolo che la luce deve, per così dire, “aggirare”, come, ad esempio, uno specchio secondario inserito all’interno del cammino ottico di un telescopio.
Vediamo ciò che capita nella Fig. 13. A sinistra la classica apertura singola, a destra un ostacolo, con le due onde circolari che si formano ai bordi dell’ostacolo e che in breve interferiscono per creare poi un’ onda finale più complicata.
Come si manifesta, in pratica, l’inserimento di un ostacolo circolare in un telescopio ad apertura circolare? Vediamone l’immagine finale per varie combinazioni nella Fig. 14. In alto senza alcuno ostacolo e il classico disco di Airy. Scendendo cresce il diametro dello specchio secondario e la figura di diffrazione si complica mettendo in rilievo anche i cerchietti secondari. Nell’ultima in basso l’inserimento di sostegni per il lo specchio secondario e l’apparizione dei raggi luminosi che sembrano “sparati” da un’immagine stellare piuttosto luminosa. In qualche modo ne viene riprodotta la forma.
Sui telescopi, comunque, torneremo la prossima volta. Dobbiamo, infatti, ancora cercare di mandare verso un solo punto (più o meno) i raggi luminosi che entrano da un apertura larga ed è necessario usare un obiettivo. Il nostro occhio è veramente fantastico, malgrado abbia un’apertura molto piccola: riesce a cambiare la forma dell’obiettivo a seconda di cosa deve guardare, quasi fosse un sistema ad ottica adattiva (ne abbiamo già parlato in un vecchio articolo).
Ripeto ancora che questo articolo è fondamentale per crearsi le basi necessarie all’utilizzo consapevole di un telescopio e di quello che può mostrarci. Ho cercato di rendere la trattazione elementare, ma l’argomento è tutt’altro che semplice. Se permangono dubbi vi prego di farmeli presenti e vedrò di migliorare ancora la spiegazione. E’ troppo importante per lasciarsi dietro incertezze o confusioni. La diffrazione impone un limite a qualsiasi telescopio! L’unico modo di eliminarla e avere un diametro … infinito. Ma, per adesso, è un sogno da folletto dei boschi…
Ah… dimenticavo: le più vive congratulazioni al nostro amico pescatore. Ne ha fatta di strada dai tempi del laghetto e del pesce burlone!
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Ho voluto provare a riprodurre una situazione simile con un motore di rendering che uso per i miei lavori. Si chiama Maxwell render ed è un motore unbiased, questo vuol dire che calcola la luce così com'è nella realtà, senza approssimare.
In pratica ho creato delle sferette molto molto piccole lasciandole nel vuoto e le ho rese luminose.
Applicando le varie "mappe di apertura" ho ottenuto gli stessissimi risultati che hai postato nell'articolo:
Accidenti se è difficile
Enzo, mi sa che stavolta ti deluderò perché ho capito qualcosa fino a metà articolo, per il resto...
Mi consigli di rileggerlo dopo aver finito "Rosetta & C." o non c'entra nulla?
Forza, vedrai che ce la facciamo!!!!!
Grazie Enzo, per la pazienza e per il tempo che ci dedichi.
P.S.: ma tua moglie non si lamenta?
articolo eccellente! pensa che le mie prime conoscenze di ottica risalgono a un "manuale trapper" "gli strumenti per l'astronomia" di Franco Potenza del '77 tra l'altro ben fatto! Il tuo articolo mi è servito per un ripasso molto necessario. Bravo!!!
Non per niente mi sono scelto un'assistente speciale tipo "grillo parlante". E io la seguirò con dedizione...
Dopo una rilettura più attenta, ora ho capito molto di più (forse anche perché avevo già letto l'articolo successivo).
Le uniche parti che mi restano più ostiche sono quelle che spiegano le figure 10, 12 e 14. Ma forse perché io non ho un telescopio
Le Fig. 10 e 12 non sono altro che le 9 e 11. La 9 mostra il profilo d'intensità luminosa in sezione: è come se tagliassi una fettina delle immagini della 10 (sia che sia un cerchietto o una lineeta o un quadratino).
La Fig. 12 sono due cerchietti molto vicini che tagliati da una sezione danno luogo alle curve di intensità luminosa dela Fig. 11.
In altre parole, la 10 e la 12 sono viste dall'alto, la 9 e la 11 di lato...
Forse è tutto lì il problema...