Galassie scatenate a fianco di remoti quasar

Pubblicata oggi su Nature grazie a osservazioni condotte con Alma, la scoperta di queste lontanissime galassie ad alto tasso di formazione stellare potrebbe chiarire un importante problema dell’astrofisica contemporanea. Ed è stata condotta da un giovane ricercatore ora in Germania ma che rientrerà in Italia, all’Osservatorio astronomico dell’Inaf di Bologna, dal primo di luglio

Iperproduttive, incredibilmente lontane, risalenti a quando l’universo aveva meno d’un decimo della sua età attuale. Questo l’identikit di quattro antichissime galassie in rapida crescita individuate vicino ad altrettanti quasar e descritte oggi su Nature. Una scoperta così fuori dall’ordinario da far parlare d’una possibile nuova classe d’oggetti. Una scoperta compiuta grazie a osservazioni condotte con le antenne di ALMA, l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array – osservazioni che hanno consentito anche d’individuare il più antico evento di fusione fra due galassie (merging) a oggi conosciuto. Una scoperta che potrà dare un contributo decisivo alla soluzione d’un problema che da qualche anno tormenta gli astrofisici: ovvero, come sia possibile che, quando l’universo aveva appena un miliardo e mezzo di anni, già ospitasse galassie ellittiche da 100 miliardi di masse solari – una circostanza che implicherebbe l’esistenza, quando l’età dell’universo era invece inferiore al miliardo di anni, di galassie in grado di produrre ogni anno almeno 100 stelle grandi quanto il nostro sole.

Rappresentazione artistica di un merging fra due galassie accanto a un quasar. Crediti: Mpia con materiale di Nasa/Esa Hubble Space Telescope
Rappresentazione artistica di un merging fra due galassie accanto a un quasar. Crediti: Mpia con materiale di NASA/Esa Hubble Space Telescope

Una scoperta, infine, conseguita da un team internazionale di astrofisici guidato da un “cervello in arrivo”: Roberto Decarli. Nato a Bollate, in provincia di Milano, e cresciuto a Varedo, dopo una laurea alla Bicocca e un dottorato all’Università dell’Insubria Decarli ha trascorso otto anni in Germania, a Heidelberg, al Max Planck Institut für Astronomie. Ma il suo rientro in Italia è atteso a giorni: avendo vinto un concorso da ricercatore all’INAF, infatti, dal primo di luglio Decarli sarà in forze all’Osservatorio astronomico di Bologna. Si trovava però ancora ad Heidelberg quando lo abbiamo raggiunto per farci raccontare alcuni dettagli sulla sua scoperta.

Decarli, anzitutto ci aiuti a capire meglio cosa sono questi quasar, accanto ai quali è avvenuto il vostro ritrovamento: a volte il termine viene usato come sinonimo di grandi buchi neri, altre volte di galassie…

«I quasar sono buchi neri in rapido accrescimento. Il materiale in caduta sul buco nero si scalda per attrito, ed emette radiazione. Nel caso dei quasar, questa radiazione supera di gran lunga la luminosità delle centinaia di miliardi di stelle che si trovano nella galassia ospite del buco nero. La confusione nei nomi è legata al fatto che, storicamente, è stato difficile verificare che in effetti ci fosse un’intera galassia attorno a questi buchi neri luminosissimi. Ora che però questo è assodato, è entrato in uso riferirsi come ‘quasar’ sia al buco nero, sia all’insieme di buco nero e galassia ospite».

Roberto Decarli, primo autore dello studio pubblicato su Nature
Roberto Decarli, primo autore dello studio pubblicato su Nature

Ecco, con ALMA voi avete scoperto quattro lontane galassie accanto ad altrettanti quasar. Come ci siete riusciti? È una scoperta giunta al termine d’una lunga caccia, o è stato un colpo di fortuna?

«La scoperta è arrivata per caso. Il nostro obiettivo era di studiare le galassie ospiti dei quasar. Scoprire delle galassie compagne è stato un risultato piuttosto sorprendente, visto che simili studi fatti in ottico e vicino infrarosso (ad esempio con il telescopio spaziale Hubble) non hanno mai trovato evidenza di tali compagne».

Quelli che avete scoperto sono oggetti così particolari da farvi ipotizzare che appartengano addirittura a un nuovo tipo di galassie. Perché? Cos’hanno di così straordinario?

«A rendere queste galassie speciali è una combinazione di fattori. Innanzi tutto, l’alto tasso di formazione stellare: ciascuna di queste galassie forma più di cento nuove stelle ogni anno. Per confronto, la nostra Via Lattea ne forma circa una all’anno. Il secondo fattore interessante è l’alto redshift (il parametro con cui gli astronomi misurano la distanza delle galassie nell’universo). La distanza è tale che la luce che misuriamo oggi è partita da queste galassie più di 12 miliardi di anni fa, quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni di vita. Abbiamo quindi una fotografia preziosissima della formazione delle prime galassie. Infine, il terzo elemento che le rende speciali è il loro numero. Ne abbiamo scoperte 4 su 25 campi osservati – alcuni ordini di grandezza al di sopra di quelle che ci saremmo aspettati da un generico campo. Questo significa che l’ambiente attorno ai quasar è particolarmente ricco».

Che ruolo ha giocato ALMA, l’array d’antenne dispiegato sulle Ande cilene, in questo risultato?

«ALMA ha giocato un ruolo chiave. La scoperta è stata possibile perché, per la prima volta, abbiamo potuto osservare molti quasar (25, appunto) in un solo programma, e raggiungendo una qualità delle immagini senza precedenti. E pensare che le nostre osservazioni consistono in meno di 10 minuti di “posa” per ciascun oggetto!»

Torniamo alla vostra scoperta. È solo l’ennesimo record, o è un’osservazione che può avere un impatto sugli attuali modelli astrofisici e cosmologici?

«Le implicazioni della nostra scoperta sono molteplici. Innanzi tutto, finora nell’universo infante (a meno di un miliardo di anni dal Big Bang) conoscevamo solo pochi esempi di galassie con tassi di formazione stellare così elevati – quasi tutte erano galassie ospiti di quasar. In quei casi, è difficile separare il ruolo giocato dal quasar dalle caratteristiche della galassia ospite per sé. Nelle galassie scoperte nel nostro studio, invece, non c’è evidenza di un quasar: possiamo quindi studiare indisturbati la formazione stellare e le proprietà del gas da cui le stelle si formano. La seconda implicazione è che, per la prima volta, abbiamo una misura diretta e chiara dell’ambiente in cui i primi quasar si trovano. Tutti i modelli di formazione di questi buchi neri massivi nell’universo remoto devono postulare che l’ambiente in cui ciò avviene sia particolarmente ricco. Tuttavia, finora non ne avevamo evidenza osservativa. Bisogna stabilire però se questo “eccesso” nel numero di galassie compagne è un fenomeno molto locale (visibile solo entro circa 100 kiloparsec) o se è molto più esteso: ciò comporterebbe che simili galassie compagne si possano trovare anche a distanze molto maggiori dal quasar».

Per saperne di più:

Articolo di Marco Malaspina originariamente pubblicato su Media INAF QUI.

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