Grazie all’IA è stato salvato il telescopio spaziale JWST

L’IA (Intelligenza Artificiale) applicata al campo scientifico può davvero compiere miracoli.


Le tre immagini riprese da altri telescopi

Interrompo, come detto, la traduzione dell’articolo originario per aggiungere un contributo tutto mio, con immagini e commenti personali.

La galassia NGC 1068 è visibile in tutta la sua magnificenza in questa immagine della NASA giustamente piena di crediti

Credit: NASA, ESA, Alex Filippenko (UC Berkeley), William Sparks (STScI), Luis C. Ho (KIAA-PKU), Matthew A Malkan (UCLA), Alessandro Capetti (STScI). Image Processing: Alyssa Pagan (STScI)

e si vede appunto nell’inserto un particolare della parte centrale, maggiormente evidenziato in quest’altra immagine

credit NSF/NRAO/VLA

tratta dal sito dell’Università dell’Arizona. Nulla a che vedere con la prima immagine esagonale.

Del satellite Io ho preso questa bellissima immagine scattata ad ottobre dalla sonda Juno, dal sito della NASA,

credit : NASA/Jet Propulsion Laboratory–Caltech/Southwest Research Institute (SwRI)/Malin Space Science Systems (MSSS). Image processing: Emma Wälimäki

in cui si vede uno strano Io diviso in due parti, quella a sinistra illuminata dal “chiaro di Giove” (gli anglofoni hanno inventato il termine “Jupitershine“) mentre la parte a destra è quella direttamente illuminata dal Sole: difficilmente dalla seconda immagine del JWST “prima della cura” si capisce che si trattava di Io.

Infine la stella WR 137: a cominciare dal termine “Wolf Rayet“, confesso che conosco davvero poco le caratteristiche di questo tipo particolare di stelle, ad iniziare dal secondo nome, lo scienziato Georges Rayet di cui non riuscivo nemmeno a pronunciare il cognome visto che non ne conoscevo la nazionalità. Grazie all’IA intelligente di Google ho saputo che è francese e si pronuncia “Ra-iè”…

Risolto questo mistero, un’immagine della stella in questione l’ho tratta direttamente da Wikipedia ed è proprio del JWST (immagino quando ancora funzionava bene)

credit : JWST, strumento MIRI

e ancora una volta la terza immagine “prima della cura” è ben lontana da quanto si aspettassero i tecnici della NASA.

Vediamo ora le tre immagini “dopo la cura”, dopo l’applicazione del software di correzione, lasciando la relativa spiegazione molto tecnica tratta dall’articolo originale nel prossimo paragrafo.

credit : Louis Desdoigts e Max Charles, Università di Sydney

Considerato che si tratta di immagini nell’infrarosso e non nel visibile e comunque non  paragonabili direttamente a quelle viste nel visibile, direi che sono assolutamente fantastiche: niente più esagoni o batuffoli colorati, ma il frutto di una complessa manipolazione da parte del software e non certo di un banale intervento con Photoshop o simili!

Torniamo ora all’articolo, ancora con i miei commenti in corsivo…

Dalla visione offuscata alla chiarezza finale

Il problema si concentra su un componente australiano denominato AMI (Aperture Masking Interferometer), progettato dal Prof. Peter Tuthill e posto a bordo del JWST.

Si tratta uno strumento che permette agli astronomi di catturare immagini molto dettagliate di stelle ed esopianeti, combinando la luce proveniente da varie sezioni dello specchio principale del telescopio, utilizzando il metodo dell’interferometria.

Ma fin da subito gli scienziati si sono accorti che le performance dell’AMI erano interessate da distorsioni all’interno del ricevitore della camera nell’infrarosso, che provocavano un debole sfocamento delle immagini, molto simili a quelle che presentava l’HST e corrette con l’intervento degli astronauti.

Invece di progettare un nuovo hardware e tentare una costosissima missione di salvataggio, i due studenti, sotto l’occhio esperto di Tuthill e del prof. Ben Pope (dell’università di Macquarie), hanno sviluppato un metodo di calibrazione solamente software.

Il tool creato dai due studenti, denominato AMIGO (Aperture Masking Interferometry Generative Observations, applicato dunque all’AMI), usa simulazioni avanzate e le reti neurali per replicare il comportamento dell’ottica e dell’elettronica di bordo del telescopio spaziale: identificando una specifica imperfezione dell’immagine dove le cariche elettriche sconfinano nei pixel circostanti (fenomeno chiamato “brighter-fatter effect“) il team ha creato degli algoritmi che rimuovono tale distorsione, ripristinando così la precisione prevista originariamente per l’AMI. (detto così sembra facile, ma è soltanto il substrato superficiale di un bel buco nero fatto di bit)

In definitiva, Max Charles è perciò riuscito a correggere le tre immagini, catturando in alta risoluzione il getto del buco nero della galassia NGC 1068, la superficie vulcanica di Io e i venti stellari polverosi della stella WR 137.

Conclusioni

Siamo arrivati al termine di questo articolo lunghissimo ma molto interessante e aggiungo l’affermazione da parte del prof. Pope che tutto il team era davvero ansioso di poter fornire il prima possibile questo nuovo codice ai tecnici ricercatori del JWST: nell’articolo però non viene segnalato se ciò sia già avvenuto e con quali modalità.

Informazioni su Pierluigi Panunzi 607 Articoli
Classe 1955, sono nato e vivo a Roma, laureato in Ingegneria Elettronica, in pensione dopo aver lavorato per anni nel campo del software, ma avrei voluto laurearmi in Astronomia. Coltivo la passione per l’astronomia dal giorno successivo allo sbarco dell’uomo sulla Luna, maturando un interesse sempre crescente per la Meccanica Celeste, il moto dei pianeti, la Luna e i satelliti. Da molti anni sono divulgatore scientifico e in passato ho presieduto a serate astronomiche organizzate a Roma e paesi vicini. Da parecchi anni mi sto perfezionando nell’astrofotografia grazie all’auto-regalo di varie apparecchiature digitali

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