L’articolo può essere diviso in due parti. Nella prima, estremamente semplificata, vogliamo dimostrare che un banale triangolo rettangolo e l’applicazione del teorema di Pitagora, ci permette di ricavare un fattore fondamentale per la teoria della relatività: il fattore di Lorentz, quello che controlla la dilatazione del tempo e molte altre cose. Poi, risolto il problemino cinematico, chiacchiereremo un po’ sul tempo e sui sistemi di riferimento, arrivando a formulare l’ormai celebre paradosso dei gemelli che ormai conoscete molto bene. Per far ciò, più che le formule, occorre una particolare attenzione ai concetti, sena farsi confondere da tempi che si annullano e orologi che rallentano o si mettono a girare come pazzi.
La relatività di Galileo e quella “ristretta” di Einstein
Innanzitutto, chiariamo subito che la teoria della relatività nasce decisamente con Galileo Galilei e la si trova espressa perfettamente nel suo celebre scritto: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (andate a leggerlo… è veramente fantastico!). Essa può sintetizzarsi in un principio facilmente comprensibile: le leggi della meccanica devono valere per tutti i sistemi di riferimento inerziali. Chi conosce un po’ di meccanica, sa benissimo cosa vuol dire sistema inerziale (nell’ultimo libro ne ho parlato diffusamente). Tuttavia, l’enunciato di prima si può semplificare ancora di più dicendo che leggi della meccanica rimangono inalterate qualunque sia la velocità del corpo o del sistema che si sta studiando. L’importante è che la velocità sia costante.
Facciamo un esempio semplicissimo: se verso l’acqua in un bicchiere, essa cade perfettamente dentro il contenitore sia che io sia fermo sia che io stia viaggiando a velocità costante, come ad esempio al ristorante di un treno ultra moderno che non ha scossoni, ma anche su un aereo a reazione o su un pianeta che gira intorno al Sole (lo faccio insieme a voi continuamente…). Questo esempio dice appunto che una certe legge meccanica vale in ogni sistema inerziale, ossia in ogni sistema che si muova rispetto a un altro con velocità uniforme.
Fatta questa premessa, verificabile ogni giorno, non possiamo meravigliarci che anche Einstein l’abbia considerato un principio inattaccabile. Anzi, che lo abbia allargato a tutta la fisica e non solo alla meccanica.
Galileo era andato anche oltre. Aveva capito che la luce viaggiava a una velocità che non doveva essere infinita. Tuttavia, aveva concluso che era talmente alta da non influire sulle leggi della Natura e aveva accantonato il problema (nel XVII secolo era più che ammissibile). Per lui il tempo era sempre lo stesso, in qualsiasi sistema di riferimento. Un’azione che si compiva in tre secondi su un sistema, avrebbe impiegato lo stesso tempo anche su un sistema in movimento rettilineo uniforme rispetto al primo.
La vera novità di Einstein è stata, quindi, quella di affrontare il problema della velocità della luce, c, e di asserire non solo che era finita (circa 300 000 km/sec), come risultava da vari esperimenti, ma che essa rimaneva costante in qualsiasi sistema inerziale. In altre parole essa era indipendente dalla velocità con cui si muoveva la sorgente che aveva generato la luce. Questa ipotesi l’abbiamo dimostrata “astronomicamente” parlando delle stelle fantasma di De Sitter.
Una conclusione, che sembrerebbe inoffensiva, è stata invece rivoluzionaria. Basti pensare che la velocità è uno spazio diviso per un tempo. Se la velocità della luce non può cambiare, vuol dire che se varia lo spazio è costretto a variare anche il tempo e viceversa. La costanza della velocità della luce ha stravolto il concetto di relatività galileiana. Passando da un sistema inerziale a un altro, le grandezze non si conservano più. Relatività vuol proprio dire che la misura dello spazio e del tempo sono relativi al sistema di riferimento utilizzato.
Iniziamo col considerare il tempo e vediamo di calcolare in modo elementare come varia al variare del sistema di riferimento. Come già detto, riusciremo con estrema facilità a ottenere il fattore di Lorentz, una grandezza essenziale per tutta la relatività. E senza bisogno di formule astruse, ma solo con il teorema di Pitagora. Fatemelo raccontare con una piccola avventura spaziale e non ditemi che è un po’ assurda… lo so benissimo!
Una strana astronave
Abbiamo solo bisogno di un’astronave (un po’ strana per la verità), di un coraggioso astronauta A e di un punto di osservazione nello spazio (magari un asteroide o meglio ancora un satellite di Saturno) dove recarci per vederla passare quando ormai ha raggiunto una velocità di crociera v, molto elevata ma costante.
L’appuntamento con l’astronave è già fissato e il nostro astronauta accenderà una luce per farsi vedere e dimostrare che tutto va bene. E’ l’unico sistema, perché la radio raffinatissima di bordo potrà essere accesa solo quando uscirà dal Sistema Solare (fuori dal campo magnetico solare) e ci vorranno parecchi mesi. Non può consumare energia, per cui deve lasciare la luce accesa solo per un tempo brevissimo: giusto quello necessario alla luce inviata dalla lampada L per raggiungere la sua testa. Sia T questo tempo, che l’astronauta ha misurato più e più volte prima della partenza.
Superare T vorrebbe dire rischiare di restare senza energia nel caso di problemi inattesi. La Fig. 1 ci mostra la strana astronave con il suo motore a bosoni alternati. La cabina di comando è completamente trasparente, in modo che sia visibile dall’esterno.
Tutto è pronto per l’incontro. L’astronave è puntualissima e passa proprio davanti alla nostra posizione di vedetta. All’istante t1 = 0 l’astronauta accende la luce della lampada L che lo raggiunge al tempo t2. La spegne subito e controlla. Tutto bene: il tempo t2 in cui è stata accesa è proprio uguale a T. Non ha sprecato energia.
Che distanza ha percorso la luce per raggiungere l’astronauta? Facilissimo: l’altezza della cabina d. Qual è la velocità della luce? Ancora più facile: è la distanza percorsa divisa per il tempo impiegato a percorrerla. Ossia:
c = d/T
da cui si può scrivere senza alcun problema che:
d = c T.
Sono cose che l’astronauta sa già, in quanto ha provato e riprovato la manovra prima di partire e sa benissimo che quello che capita in un sistema di riferimento deve capitare in qualsiasi sistema di riferimento che si muova rispetto ad esso a velocità costante. Proprio quello che sta facendo lui adesso. Per l’esploratore spaziale l’astronave non si muove assolutamente, così come capita per un uomo che sulla Terra si sente immobile anche se il pianeta gira intorno al proprio asse, rivolve attorno al Sole e insieme a lui attorno al centro della galassia, a velocità non certo trascurabili. Basta ricordare il primo enunciato di Galileo che è stato ripreso e rafforzato da Einstein: “Le leggi della fisica devono valere per tutti i sistemi di riferimento inerziali”.
Tutto bene allora? Sembrerebbe di sì. Perché allora l’astronauta ha visto un gesto di disperazione da parte nostra che lo guardavamo dal satellite di Saturno? Lui non capisce, eppure abbiamo proprio ragione di essere spaventati e preoccupati. Noi abbiamo misurato il tempo di accensione della luce T’ e purtroppo è risultato più lungo di quello accettabile T. Accidenti! L’astronauta ha tenuto la luce accesa troppo a lungo.
Passiamo pochi minuti di scoraggiamento e poi ci riprendiamo. Che sciocchi siamo stati. Abbiamo preso per buoni i principi di Einstein, ma non abbiamo pensato a quello che avrebbero causato. E pensare che basta conoscere il teorema di Pitagora!
Il nostro T’ non è quello misurato dall’astronauta! E’, effettivamente, più grande del giusto, ma non perché la luce è stata tenuta accesa troppo a lungo. E’ maggiore solo perché lo abbiamo misurato in un sistema di riferimento diverso. L’importante è che sia giusto il T misurato dall’astronauta che si muove con l’astronave. Quello è veramente perfetto e il pericolo scongiurato.
Vediamo, allora, in Fig. 2 come sono andate realmente le cose.
All’istante t1 = 0 si accende la lampadina. Mentre la luce viaggia verso l’astronauta, quest’ultimo, insieme alla sua astronave, si muove con velocità v che noi percepiamo benissimo. Se dessimo ragione alla meccanica classica di Newton, per sapere lo spazio percorso dalla luce per arrivare sulla testa dell’astronauta, dovremmo sommare la velocità della luce a quella dell’astronave. Insomma, un banale esercizio di cinematica. Tuttavia sappiamo benissimo (ce lo ha detto Einstein) che la velocità della luce è la massima possibile e ad essa non si può sommare un bel niente! Ossia:
v + c = c, qualsiasi sia v.
Passiamo allora al triangolo rettangolo LAA’ che descrive perfettamente ciò che vediamo noi dal satellite. La distanza d tra luce e astronauta è quella che è (la conosciamo benissimo avendola misurata a terra). L’astronave, prima che la luce tocchi la testa dell’astronauta, si è mossa di uno spazio s per effetto della sua velocità v. Lo possiamo misurare senza difficoltà. La luce deve allora aver percorso il tragitto LA’ = r per raggiungere il pilota. Quanto vale il percorso r della luce, nel nostro sistema di riferimento (nel quale vediamo muoversi l’astronave a velocità v)? Presto detto è:
r = T’ c … (1)
Ovviamente, la velocità della luce è sempre la stessa e non è superabile: al posto di un’ipotetica somma vettoriale di v e di c, abbiamo inserito c, come ci dice Einstein e come abbiamo imparato dall’esperimento geniale di De Sitter. E’ ovvio, quindi, che, dato che r > d, sia anche T’ > T: il tempo trascorso dall’accensione della lampadina a quando la luce tocca la testa dell’astronauta è diverso se osservato dal satellite rispetto a quello osservato dall’astronauta.
Galileo aveva torto. Cambiando sistema inerziale il tempo non si conserva. L’errore che abbiamo fatto è stato proprio quello di avere creduto a Galileo e aver pensato che T’ misurato da noi dovesse essere uguale a T misurato dall’astronauta.
Per convincerci definitivamente, è meglio quantificare la differenza tra i due tempi. Ci basta applicare il teorema di Pitagora al triangolo LAA’, di cui conosciamo tutto.
r2 = d2 + s2 … (2)
ossia:
c2T’2 = c2T2 + v2T’2
sviluppando e giocando un po’ con i numeri:
T’2 = T2 c2 /(c2 – v2) = T2/((c2 –v2)/c2) = T2/( 1 – v2/c2) e infine (estraendo la radice quadrata):
T’ = T/(1 – v2/c2)½ … (3)
Come previsto, il tempo misurato da noi (T’) non è assolutamente uguale a quello dell’astronauta, ma decisamente più lungo. Dato che v/c < 1 (per definizione) ne segue che anche (1-v2/c2)½ < 1. Dividere T per un numero minore di 1 vuol dire ottenere un numero T’ più grande. Ecco perché ci eravamo spaventati!
Usando la (3) al contrario (ossia ricavando T dal T’ misurato da noi) troviamo che il tempo in cui è stata accesa la luce nella cabina è proprio quello giusto per non sprecare energia preziosa.
La quantità γ = 1/(1 – v2/c2)½ è il celebre fattore di Lorentz, ossia il fattore che ci permette di calcolare quanto il tempo si è dilatato passando da un sistema di riferimento inerziale ad un altro.
Non è certo stato difficile. Eppure, attraverso un semplice triangolo rettangolo, abbiamo in mano uno strumento fantastico per entrare nei misteri della relatività ristretta.
Orologi impazziti, elisir dell’eterna giovinezza e buchi neri impenetrabili.
Da ciò che abbiamo sperimentato, risulta chiaro che la costanza della velocità della luce comporta una dilatazione del tempo. Per noi che stiamo fermi il tempo passa più velocemente che per l’astronauta. In altre parole, il nostro orologio gira più in fretta. Tanto per fare un esempio: tre secondi per l’uomo dello spazio possono equivalere a cinque secondi per noi. O, andando oltre, 30 anni per lui sono ben 50 anni per noi. Insomma, andando sull’astronave si invecchia di meno… Al limite, se l’astronauta andasse alla velocità della luce, la (3) diventerebbe:
T’ = T/(1 – 1) = 1/0 = infinito.
Per noi l’astronauta impiegherebbe un tempo infinito per compiere il più piccolo tragitto possibile, ossia lo vedremmo fermo. Noi invecchieremmo e per lui non sarebbe passato nemmeno una frazione di secondo. Il suo orologio non girerebbe. Per spiegare meglio la situazione, riprendiamo l’astronave di prima. Se la sua velocità fosse vicina a quella della luce, noi la vedremmo spostarsi in modo lentissimo. Non perché la nave spaziale ha veramente rallentato, anzi lei è velocissima, ma perché per noi una frazione di secondo dell’astronauta (ossia dell’astronave in movimento) è diventato un tempo pari a secoli e secoli. Per vederla muoversi di un metro dovremmo, magari, aspettare milioni di anni misurando il tempo con il nostro orologio.
L’esempio classico per una situazione del genere è il viaggio ipotetico verso un buco nero. Se l’astronave stesse per entrarvi dentro, noi la vedremmo rallentare sempre di più, fermandosi sull’orizzonte degli eventi dove appunto si fermerebbe per sempre, dato che v = c. In realtà in questo caso bisognerebbe tenere conto anche dell’accelerazione di gravità dovuta al buco nero, ma entreremmo nella relatività generale ed è ancora presto.
Per l’astronauta, invece, il tempo scorrerebbe normalmente.
Ovviamente, la formula (3) può essere anche usata per ricavare T a partire da T’. Si avrebbe:
T = T’(1 – v2/c2)½ … (4)
Essa ci dice che, rispetto al nostro tempo T’, quello di chi sta viaggiando (T) si accorcia sempre di più. Un tempo lunghissimo per noi sarebbe un veloce attimo per lui. Quelli che per noi sono, ad esempio, 30 anni, per lui sarebbero solo pochi anni. Al limite, quando v = c si avrebbe T =T’· 0 = 0. Rispetto al nostro, il suo tempo si fermerebbe e lui non invecchierebbe mai. Per velocità prossime a quella della luce, il tempo per l’astronauta scorrerebbe molto lentamente. Abbiamo ottenuto lo stesso risultato di prima. E’ solo questione di sistema di riferimento. Se accettiamo il nostro come tempo di riferimento, è il tempo dell’astronauta ad accorciarsi fino ad arrivare a zero. Se, invece, consideriamo, come tempo di riferimento, quello dell’astronauta, è il nostro ad allungarsi a dismisura fino a giungere a un valore infinito. La conclusione è, in fondo, la stessa.
La famosa frase: “Tutto è relativo” acquista ora il suo giusto significato e non quello che solitamente molte persone credono sia la relatività einsteniana.
Dopo aver calcolato il fattore di Lorentz, il primo enunciato di Einstein, che è poi quello di Galileo generalizzato a tutta la fisica, può essere espresso in modo più corretto: le leggi della fisica sono invarianti rispetto alle trasformazioni di Lorentz, nel passaggio da un sistema inerziale a un altro. In altre parole, esse rimangono le stesse a patto che spazio e tempo siano collegati tra loro dalle trasformazioni di Lorentz, di cui il fattore di Lorentz è il parametro fondamentale.
Ritornano i gemelli
Attenzione, però: finora abbiamo solo descritto uno stesso fenomeno osservato da due sistemi di riferimento. Un gioco teorico anche se confermato da formule esatte. Per potere veramente stabilire che cosa è successo durante il viaggio dovremmo incontraci direttamente con l’astronauta e controllare i rispettivi orologi. In altre parole, o noi raggiungiamo lui o lui si ferma e scende dall’astronave.
In entrambi i casi, però, le regole della relatività ristretta non funzionano più. Bisogna per forza o accelerare (noi) o decelerare (l’astronave). Questa necessità distrugge le ipotesi di partenza sulla costanza della velocità di spostamento tra sistemi inerziali. C’è bisogno della relatività generale. Ma questo è tutto un altro discorso…
Pensare solo in termini di relatività ristretta, può portare qualcuno a dire: “Ma se l’astronauta viaggia a velocità grandissima, ma costante, rispetto a noi, vuole anche dire che, nel suo sistema di riferimento, siamo noi a viaggiare a velocità uguale a contraria (e sempre costante)”. Lui si sente giustamente fermo, mentre noi andiamo a grandissima velocità. Vale allora la formula di prima con i tempi scambiati. Il suo orologio andrebbe più veloce del nostro. Saremmo noi a invecchiare di meno. Chi ha ragione? Entrambi, a prima vista.
E proprio qui sta il famoso paradosso dei gemelli. Esso non nasce perché un gemello diventa più vecchio dell’altro (questo è confermato dal fattore di Lorentz), ma perché la stessa cosa dovrebbe capitare a entrambi. E questo è impossibile! Proprio qui sta il paradosso: entrambi dovrebbero invecchiare più dell’altro.
Purtroppo, come già detto, non possiamo verificare direttamente chi ha ragione, perché per confrontare gli orologi, l’astronave deve fermarsi rispetto a noi. Ma per fermarsi deve decelerare, ossia cambiare la velocità. In queste condizioni non vale più la teoria della relatività ristretta. La relatività generale, invece, risolverebbe subito la questione.
Visto da un sistema inerziale esterno a tutti, chi ha subito accelerazioni e decelerazioni è proprio chi viaggia sull’astronave, mentre noi abbiamo continuato a muoverci con il nostro satellite a velocità costante. Chi invecchia meno dopo un viaggio di andata e ritorno al altissima velocità è proprio l’astronauta che ha subito un’accelerazione prima e una decelerazione dopo.
Con qualche ragionamento e qualche figura, si riesce, però, a risolvere il paradosso lavorando anche con la sola relatività ristretta. Pur utilizzando velocità costanti e nessuna accelerazione, si dimostra che durante il viaggio di andata e ritorno, l’astronauta ha cambiato il proprio sistema di riferimento mentre noi lo abbiamo mantenuto. Questa considerazione porta alla soluzione del paradosso anche nell’ambito della relatività ristretta, come Francesca ed io abbiamo dimostrato ampiamente nell’Infinito Teatro del Cosmo.
Dopo tutti questi discorsi non dobbiamo certo pensare che la fisica di Galileo e di Newton sia da buttare nel cestino della spazzatura. Infatti, la formula della dilatazione del tempo (e quindi il fattore di Lorentz) dice che:
T’ = T/(1 – v2/c2)½
Se v è trascurabile rispetto alla velocità della luce, v/c vale praticamente zero (ossia è un numero piccolissimo). Ne consegue che
T’ = T/(1 – 0) = T
I due tempi coincidono, proprio come avevano assunto Galileo e Newton.
Nella vita di tutti i giorni, ma anche nella maggior parte dei fenomeni celesti, le velocità degli oggetti sono quasi sempre insignificanti rispetto a quella della luce. Un corpo celeste può sfiorarci a decine di chilometri al secondo: un velocità enorme per noi, ma veramente ridicola per quella della luce che è ben 300000 km/sec. Se dividiamo 30 per 300000 otteniamo 0.0001 (e poi dobbiamo anche elevarlo al quadrato). Possiamo tranquillamente considerare zero il rapporto tra le due velocità al quadrato. La fisica alla portata degli esperimenti dell’uomo del XVII secolo non riusciva certo ad accorgersi della dilatazione del tempo e nemmeno ne aveva bisogno.
Oggi le cose sono cambiate, ma non certo per ciò che ci circonda. Dobbiamo andare al CERN di Ginevra e studiare le particelle piccolissime e rapidissime, oppure osservare stelle che esplodono o buchi neri che urlano, per osservare qualcosa che si muova come la luce.
Galileo e Newton, non potevano certo immaginare il CERN e nemmeno i buchi neri… Sono ampiamente giustificati!
La prossima volta parleremo delle trasformazioni di Lorentz nel loro complesso e capiremo molto bene (spero) perché si parla sempre di spazio-tempo come di una cosa sola e inscindibile.
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Articolo ineccepibile, come sempre, ma soprattutto spiegato in modo splendidamente semplice (come nel LIBRO).
Gran bella spiegazione, Enzo! Semplice ed efficace.... Se poi pensi che le trasformate di Lorentz c'entrano anche col problema dell'universo simulato....
grazie amici!
Un po' alla volta arriveremo anche alla relatività generale... basta usare un orologio lento lento lento...
magari, come dice Red, inizieremo a simulare anche noi.
wow Enzo!
il paradosso dei gemelli lo avevo capito perfettamente dal tuo libro.... ma spiegare il fattore di Lorenz con il teorema di Pitagora è un tocco da maestro (anzi da professore!), sono quasi sconvolto... è meglio che rilegga tutto l'articolo perchè è troppo forte!
Comunque, con calma, facciamo prima digerire Lorentz ai tanti lettori interessati (l'articolo è un po' lungo).
Grazie infinite... ma non era difficile...
Caro Enzo,sono preoccupato perchè per me il paradosso dei Gemelli continua ad essere un paradosso, nel senso che tutti e due i gemelli devono invecchiare (o restare giovani) rispetto all'altro
Provo a spiegare il mio dubbio: Se avessimo un sistema inerziale privilegiato (e non è così) il problema sarebbe risolto invece ogni sistema è come se avesse un suo tempo proprio e quindi vale solo la differenza di velocità fra i due sistemi presi in esame. In ognuno di essi c è costante e, quindi, le situazioni sono perfettamente scambiabili. Enzo mi hai già fatto capire un sacco di cose, attendo fiducioso, grazie