I buchi neri supermassicci, ovvero quelli che spadroneggiano al centro di ogni galassia, inclusa la nostra, potrebbero essere più piccoli di quanto abbiamo fino ad ora pensato. Ciò significa che anche i segnali di onde gravitazionali prodotti dalla loro fusione potrebbero essere più deboli di quanto ipotizzassimo. Questo è quanto emerge da una ricerca pubblicata da un team internazionale di scienziati, molti dei quali italiani, sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.
Ad oggi sappiamo che ci sono buchi neri supermassicci nei nuclei di tutte le galassie che abbiamo potuto osservare in sufficiente dettaglio. Nonostante questo, conosciamo ben poco del modo in cui questi colossi si sono formati. Quello che sappiamo è che la massa di un buco nero supermassiccio al centro di una galassia è correlata alla massa totale della galassia stessa e alle velocità delle stelle che si trovano nella sua regione centrale.
L’esistenza di questo rapporto suggerisce la presenza di un legame molto stretto tra i buchi neri e le galassie che li ospitano, e la comprensione della loro origine è di vitale importanza per ottenere un quadro completo e corretto di come galassie e buchi neri si formano ed evolvono. Molti modelli di evoluzione galattica, infatti, chiamano in causa venti e/o getti provenienti dal buco nero centrale (il cosiddetto “quasar feedback”), che potrebbero avere un ruolo fondamentale nella formazione di stelle all’interno della galassia. Questo effetto prevede che le emissioni di questi mastodonti sia tale da impedire al gas presente nella galassia di raffreddarsi abbastanza e di formare nuove stelle. D’altro canto le fusioni di galassie, e con esse le fusioni dei loro buchi neri centrali, sono spesso identificate come fattori scatenanti dell’evoluzione di galassie massicce.
Nonostante i numerosi sforzi teorici e sperimentali degli ultimi decenni, non è stato possibile verificare con certezza se il quasar feedback sia mai avvenuto, né in che misura le fusioni abbiano modellato le galassie e i loro buchi neri.
Il nuovo studio dimostra che esistono effetti di selezione, ovvero che ciò che osserviamo non è rappresentativo del campione studiato, e che questo ha distorto notevolmente la nostra visione della popolazione dei buchi neri supermassicci. Questo effetto di distorsione, chiamato anche bias, ha portato gli scienziati a sovrastimare in maniera significativa le masse dei buchi neri. Il bias suggerisce che i teorici dovrebbero cercare di comprendere i meccanismi alla base dell’evoluzione galattica e del quasar feedback basandosi sulla dispersione di velocità delle stelle, piuttosto che sulla loro massa.
Avendo masse mediamente inferiori al previsto, i buchi neri supermassicci hanno anche campi gravitazionali più deboli. Inoltre, una massa inferiore implica anche una riduzione sostanziale dell’intensità del segnale emesso sotto forma di onde gravitazionali, come quelli registrati a settembre e dicembre 2015 dai rivelatori LIGO negli Stati Uniti.
«Con la prima rilevazione diretta di onde gravitazionali l’astronomia ha visto aprirsi una nuova finestra di osservazione sull’Universo», dice Francesco Shankar, astronomo presso l’Università di Southampton e primo autore dello studio. «I nostri risultati mostrano quanto sarà impegnativo ottenere un quadro completo del fondo gravitazionale, dal momento che i segnali provenienti dai buchi neri più massicci sono, paradossalmente, i più difficili da rilevare con la tecnologia attuale».
I ricercatori prevedono infatti che le coppie di buchi neri supermassicci, cioè quelli che si trovano all’interno di sistemi di galassie in fusione, siano le sorgenti di onde gravitazionali più potenti in assoluto. Tuttavia, più è massiccia la coppia di buchi neri, minore è la frequenza delle onde gravitazionali emesse, arrivando nei casi più estremi a diventare inaccessibile ai rivelatori da terra come LIGO. La radiazione gravitazionale proveniente da queste coppie di buchi neri estremi sarà comunque rilevabile dallo spazio, grazie a missioni come LISA Pathfinder, che sta iniziando a inviare i primi risultati, e alla prossima eLISA o dai cosiddetti “pulsar timing array”. I pulsar timing array studiano i tempi di arrivo dei segnali pulsati di stelle compatte in rapida rotazione, anche dette appunto pulsar. Sebbene questi metodi di analisi potrebbero avere davanti ancora qualche anno prima produrre risultati, una cosa è certa: i prossimi saranno anni particolarmente intensi per ricercatori e appassionati di astronomia.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Selection bias in dynamically measured supermassive black hole samples: its consequences and the quest for the most fundamental relation” di Francesco Shankar, Mariangela Bernardi, Ravi K. Sheth, Laura Ferrarese, Alister W. Graham, Giulia Savorgnan, Viola Allevato, Alessandro Marconi, Ronald Lasker e Andrea Lapi
Articolo originale QUI.
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